La transizione verso l’economia verde, circolare, sostenibile ossia tradurre in termini pratici, operativi questo processo è una delle sfide, o meglio la sfida per antonomasia, del nostro tempo che dovrà tener conto degli equilibri ambientali del pianeta nella sua interezza con gli attuali interessi sociali, economici e politici.
Certamente l’attuale modello economico e culturale mondiale non può affrontare tale sfida con una seria possibilità di successo. Dovremo quindi ripensare ai valori alla base del Contratto sociale e ad un diverso modello di società che metta al centro l’Uomo e non la Merce.
Una considerazione preliminare sul sostantivo femminile “transizione” ossia il suo significato è “passaggio da una situazione a un’altra, sia in senso statico, come condizione intermedia definita, che in senso dinamico in quanto implica l’idea di un’evoluzione in atto”.
La nuova dicitura del “Ministero dell’ambiente” in “Ministero della transizione ecologica” con l’aggiunta delle competenze energetiche e quindi si può ben definire “Ministero della transizione ecologica ed energetica” si trova così a recitare un ruolo chiave nel contesto italiano: in pratica si tratta di passare da un’economia ad energia fossile ad un’economia basata sulle energie rinnovabili e quindi secondo i benpensanti (spero si colga l’ironia) su un concetto di “emissioni zero” come si vede su tanti mezzi di trasporto, esempio tipico di greenwashing, ma di questo entreremo in merito nei prossimi interventi.
In realtà, la transizione energetico-ambientale richiede una quantità di “materie prime” definite appunto “critiche” dall’Unione Europea nell ‘ambito della comunicazione 474 del 2020 dove si pone bene in evidenza la sfida prossima ventura del loro approvvigionamento e sostenibilità e, citando l’OCSE, conclude che: “l’aumento dell’uso dei materiali, unito alle conseguenze ambientali della loro estrazione e trasformazione e dei rifiuti generati, potrebbe incrementare la pressione sulle basi delle risorse delle economie del pianeta e compromettere i benefici in termini di benessere e – si chiude in modo ancor più significativo (che diventa il punto focale del ragionamento) – se non si tiene conto delle implicazioni in termini di risorse delle tecnologie a basse emissioni di carbonio vi è il rischio che il trasferimento dell’onere della diminuzione delle emissioni ad altre parti della catena economica possa generare nuovi problemi ambientali e sociali, come inquinamento causato da materie prime, distruzione degli habitat, esaurimento delle risorse”.
Risulta così evidente che la richiesta di ricerca di titanio sul Beigua non rappresenta un episodio fine a se stesso, ma un tassello di ben altra portata che va oltre all’atto amministrativo, detto in altro modo, si tratta di atto di geopolitica di estrema rilevanza su cui andranno ad inserirsi importanti aspetti d’interesse nazionale, come per altro è già avvenuto e la politica deve prendersi la propria responsabilità.
Per fare un esempio che rappresenta il prologo al prossimo intervento, una potenziale zona d’estrazione delle materie prime critiche è rappresentato da parte dei fondali oceanici e proprio pochi giorni fa una nota ditta di automobili annuncia con enfasi: “noi chi schieriamo a protezione delle profondità marine e, grazie ad un accordo con la tal associazione, ci impegniamo a non utilizzare minerali provenienti dall’oceano ed a non finanziare l’estrazione mineraria in acque profonde”.
Sorge spontanea la domanda: e allora da dove? e perché sul Beigua si, e sul fondo degli oceani, no.
Come penso sia evidente, la problematica è complessa, estremamente complessa, ma avremo modo di entrare in merito.
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