Conclusa la raccolta firme per il referendum di abrogazione della caccia, ed a prescindere dall’incerto esito della stessa, il Parlamento deve subito mettere mano ad una radicale revisione della legge quadro in materia di caccia[1].
Un referendum boomerang
Rispetto all’iniziativa del comitato promotore, i Gruppi Ricerca Ecologica hanno lasciato libertà di adesione ai propri volontari: scevri da un atteggiamento gnostico, riteniamo sia nel merito che nel metodo il rischio altissimo è che il quesito sortisca un effetto peggiorativo della situazione.
Storicamente i quesiti referendari hanno enormi difficoltà a raggiungere il quorum. In materia di caccia, un fallimento per disinteresse del corpo elettorale rischierebbe di dare una percezione differente da quella che è la sensibilità della stragrande maggioranza degli italiani.
L’abrogazione parziale o addirittura totale della normativa vigente esporrebbe l’Italia al rischio di deregolamentazione della materia. Ma anche di infrazione rispetto ad obblighi comunitari, in particolare relativamente all’avifauna.
La mutazione sociale dell’Italia
Ciò non significa che, dopo trent’anni dalla sua approvazione, non si possa parlare di revisione della 157/92. Anche perché la sopravvenuta mutazione sociale, che ha visto il paese trasformarsi da agricolo a urbano o industriale, e contestualmente il ridursi la popolazione venatoria di oltre il 50% in pochi decenni[2] sono probabilmente alla base dello squilibrio in cui attualmente ci si trova.
In diverse occasioni la Corte costituzionale ha riconosciuto a questa legislazione il carattere di norma fondamentale di riforma economico-sociale ed ha evidenziato che le disposizioni che individuano le specie ammesse al prelievo venatorio e quelle volte ad assicurare la sopravvivenza e la riproduzione delle specie cacciabili[3] . Anche attraverso la definizione dei limiti massimi della stagione venatoria, risultano di competenza dello Stato[4] [5].
Ma questa legislazione nacque in una situazione ambientale e sociale completamente diversa da quella attuale ed oggi risulta obsoleta.
Il territorio che cambia
Ad esempio, il territorio e la società italiana si sono profondamente modificati: come pensare che questo non impatti sulla caccia?
Come evidenziato dall’ISPRA[6], la progressiva diminuzione della superficie destinata all’agricoltura segue lo sviluppo delle aree urbane. Parallelamente, nell’agricoltura cresce l’uso di pratiche di coltivazione intensiva che determina profonde modifiche all’ambiente. E contribuisce al degrado della qualità del suolo[7].
Aumentano le aree artificiali (spazi sottratti dall’uomo alla natura per qualsiasi scopo o destinazione), necessarie per fare posto alle infrastrutture per il trasporto e nuove costruzioni, che dagli anni ’50 del secolo scorso ad oggi sono cresciute del 180%.
Più bosco, aree protette e zone antropizzate
L’abbandono delle aree agricole sta favorendo la crescita delle aree boschive, anche se questo non sempre si traduce in un aumento della biodiversità.
Ma al contempo crescono anche le aree protette. Dall’8,45%[8] della superficie della Repubblica Italiana ricadente in aree naturali nel 1992, si è passato attualmente al 10,5% (circa 31.636 km²). Ed il Piano strategico mondiale per la biodiversità per il periodo 2011-2020[9] prevede un fortissimo incremento di tali superfici, che addirittura dovrebbe arrivare al 30% secondo il Parlamento europeo[10].
Ai dati precedenti, e cioè all’evoluzione della sociologia urbana e rurale, che vede il prevalere della prima sulla seconda, insieme alla crescente sensibilità ecologica a partire dagli anni ’90 fino al presente interesse mondiale per clima e ambiente, non si può non considerare anche la mancata riflessione da parte dell’attualità politica italiana sul mondo della caccia e del prelievo venatorio, nonché sullo scontro tra attività ludico ricreativa e le necessità di equilibrio ecologico e faunistico di cui il paese necessita.
Controllo faunistico e prelievo venatorio: due concetti differenti
La 157/92 è stata varata ben prima della legge che conferì piena autonomia statutaria alle regioni[11] e della riforma del titolo V della Parte II della Costituzione[12].
Nei fatti, ad esempio, il controllo faunistico (che concettualmente non va confuso con la caccia o prelievo venatorio[13]) anziché fondare su basi scientifiche viene continuamento assoggettato alle esigenze della politica territoriale.
I piani di controllo dovrebbero fissare i valori soglia, mantenendo le densità ad un livello più basso: in realtà ciò non avviene per preservarne la convenienza.
Relativamente ai migratori e agli acquatici (tipologia di caccia che andrebbe totalmente vietata), i calendari venatori regionali dovrebbero adeguare l’elenco dei periodi di prelievo in base ai monitoraggi[14] . In realtà ciò avviene sporadicamente.
E nella rivisitazione degli elenchi non si può prescindere dalla revisione delle date in quanto le migrazioni hanno subito modificazioni in conseguenza dei cambiamenti del clima.
Uno squilibrio pericoloso anche per la biodiversità
Ma il problema principale della convivenza tra uomo e fauna selvatica attualmente viene rappresentato dalle specie stanziali, come gli ungulati. Il cui numero in Italia in 30 anni è passato da 900 capi a oltre due milioni. E principalmente con riferimento ai danni che arrecano alle coltivazioni agricole, rispetto ai quali sarebbe auspicabile lo sviluppo del principio dell’autotutela governata[15], nonché alle penetrazioni in ambito urbano[16].
Probabilmente, invece, la principale dannosità di questa specie stanziali classificate come invasive e molto dannose[17], oltre quella sulle attività economiche, è rappresentata dai danni alla biodiversità ed ai servizi ecosistemici, assolutamente da evitare in particolare nelle aree protette.
La pressione ambientale degli ungulati nelle aree naturali, ricche di specie vegetali autoctone, è in grado di colpire diversi habitat, come il sottobosco. Ciò comporta un grave impatto non solo limitato alla ricchezza vegetale[18] ma anche agli aspetti conservazionistici, in quanto a seguito del rooting gli ambienti vengono ricolonizzati da piante aliene invasive [19].
La fauna stanziale invasiva rappresenta anche una minaccia alla sopravvivenza degli uccelli che nidificano al suolo. Singolare, a tal proposito, è l’esempio della Coturnice di Sicilia (Alectoris graeca whitakeri), la quale oltre ad essere specie cacciabile sebbene in declino[20], vede propri nei cinghiali il proprio principale predatore[21].
L’importanza della programmazione faunistica
Poiché il vero problema lasciato irrisolto dalla 157/92 è quello del controllo del mondo venatorio, non è a questo che possono essere delegate le attività di controllo della fauna selvatica. La programmazione faunistica, con i suoi strumenti preventivi e operativi, è il solo strumento utile per il controllo delle specie in eccesso.
La caccia collettiva in braccata non ha dimostrato efficacia nel contenere né le presenze di cinghiali né i danni da questi causati là dove, ad esempio, è stata impropriamente utilizzata per effettuare interventi di controllo. Ma addirittura sortisce molteplici effetti contrari tra cui tra cui la modifica della struttura sociale e genetica delle popolazioni nonché la modifica del comportamento riproduttivo delle popolazioni, favorendo la produttività delle femmine[22].
Di contro, la pressione dovuta al sovrannumero di grandi mammiferi selvatici e degli uccelli infestanti a cui in alcune zone è sottoposto il mondo agricolo, rimasto solo e senza tutela delle istituzioni che non riescono a reggere la pressione di una gestione ideologica del prelievo venatorio, è divenuta ormai insostenibile e rischia di rappresentare una essa stessa una minaccia per la biodiversità ed il paesaggio. Soluzioni come le catture, le sterilizzazioni (la cui efficacia è stato dimostrato scientificamente essere tutt’altro che acclarata[23]), il trasferimento presso centri di recupero (che nei fatti non possono occuparsi del problema), hanno senso esclusivamente in una ben più ampia gestione del fenomeno.
Il costo della tutela della fauna selvatica
Il principio in base al quale la fauna selvatica è un bene indisponibile delle Stato trasferisce sui produttori uno dei principali costi dell’esigenza pubblica di tutela: contestualmente al finanziamento delle azioni preventive di mitigazione, a tale disposizione devono corrispondere veri e propri rimborsi dei danni patiti da agricoltori e allevatori sulla base del mancato reddito, e non solo meri indennizzi regionali liquidati a distanza di anni.
Una riflessione serena andrebbe effettuata anche sull’attività svolta da tre delle quattro tipologie di istituti faunistici privati: i centri privati di riproduzione della fauna selvatica allo stato naturale; le aziende faunistico – venatorie; le aziende agrituristico – venatorie.
La nuova legge quadro dovrebbe pertanto puntare ad una maggior tutela della biodiversità sia nelle aree naturali che in ambito agricolo.
Aree vocate: mai quelle naturali nè quelle agricole di pregio
Anche nei Regioni dove è stato introdotto il concetto di “area vocata”[24], queste non dovrebbero mai includere aree naturali nè zone agricole di pregio come quelle in cui possono potenzialmente essere realizzate colture che danno origine ai prodotti con riconoscimento di indicazione geografica.
In tale prospettiva, occorre definire in maniera esplicita ed univoca il concetto di prelievo venatorio selettivo, prevedendo la possibilità della sola caccia di selezione. La quale deve essere resa possibile anche negli istituti finalizzati alla gestione venatoria ma in cui vige il divieto di caccia di cui alla legge n. 157/92, art. 10, comma 8, lettere a), b), c) e d); nonché nelle foreste demaniali; nonché sui terreni innevati anche al di fuori della Zona faunistica delle Alpi.
Stop automatici in caso di calamità
Per le specie legate ad ecosistemi terrestri, perdite di ambienti possono limitare fortemente la disponibilità delle risorse trofiche essenziali per la fauna e ridurre in maniera significativa le possibilità di rifugio. In caso di eventi siccitosi, incendi[25], disastri naturali la norma nazionale dovrebbe prevedere limitazioni automatiche all’attività venatoria programmata dalle Regioni.
Infine andrebbero introdotti l’obbligo di munizioni atossiche, bandendo il piombo come in tanti altri paesi europei, e la previsione di percorsi formativi nazionali per la caccia selettiva e la tutela ambientale.
Bibliografia e sitografia
[1] Legge 11 febbraio 1992, n.157 «Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio»
[2] Caccia in Italia. Wikipedia
[3] ISPRA. Linee guida per la gestione degli Ungulati. Linee guida 91/2013
[4] Sentenza della Corte Costituzionale n. 35 del 1995
[5] Sentenza della Corte Costituzionale n. 272 del 1996
[6] ISPRA. Territorio. Processi e trasformazioni in Italia. Rapporti 296/2018
[7] ISPRA. I dati sul consumo di suolo. Rapporto 2021
[8] elaborazione dati del Ministero dell’Ambiente – CNR 1992, integrati soltanto per i parchi nazionali di nuova istituzione con quelli del Comitato parchi nazionali, 1992
[9] Convention on Biological Diversity. Strategic Plan 2011 – 2022: Aichi Biodiversity Targets
[10] Parlamento europeo. Biodiversità: il PE chiede obiettivi vincolanti a livello UE e globale. Comunicato del 16 gennaio 2020
[11] Legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 1 «Disposizioni concernenti l’elezione diretta del Presidente della Giunta regionale e l’autonomia statutaria delle Regioni»
[12] legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 «Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione»
[13] Toso S. “Polizia faunistica”: caccia e controllo di popolazione degli animali selvatici. in ISPRA – IdeAmbiente, Anno 7, numero 49 – novembre / dicembre 2010
[14] vedi articolo 18, comma 2 della L.157/92
[15] Sentenza della Corte Costituzionale n.160 del 2020
[16] Prete, Carmelina & Cozzi, Mario & Romano, Severino. (2016). Gli impatti delle specie invasive sulla biodiversità, sui servizi ecosistemici e sulle attività economiche: il caso dei danni da cinghiale (sus scrofa). in atti del 11° Convegno Nazionale sulla Biodiversità – giugno 2016
[17] Lowe S., Browne M., Boudjelas S., De Poorter M., 100 of the World’s Worst Invasive Alien Species – A selection from the Global Invasive Species Database, The Invasive Species Specialist Group (ISSG), a specialist group of the Species Survival Commission (SSC) of the World Conservation Union (IUCN), December 2000 (aggiornato novembre 2004).
[18] Todini, Alberto & Crosti, Roberto. (2020). Il cinghiale (Sus scrofa) come determinante di cambiamenti di vegetazione in una foresta urbana mediterranea: impatto sulla biodiversità di un’area protetta. Forest – Rivista di Selvicoltura ed Ecologia Forestale. 17. 71-77. 10.3832/efor3284-017.
[19] Scillitani, Laura & Monaco, Andrea. (2015). Il Cinghiale e la Biodiversità. 10.13140/RG.2.1.3350.6325.
[20] A livello globale, la Coturnice è considerata specie ‘quasi minacciata’ dalla Lista Rossa dell’IUCN (Version 2016-2, www.iucnredlist.org). Ma la specie è classificata sia come “specie prioritaria” in quanto inserita nell’allegato I della Direttiva 2009/147/CE, sia come “(specie cacciabile nell’UE, secondo i criteri di saggia utilizzazione” in quanto inserita nell’allegato II della medesima Direttiva Uccelli
[21] Scarselli, Daniele & Vecchio, Giuseppe. (2016). Primi dati sull’applicazione del Piano di controllo del Cinghiale (Sus scrofa) nella R.N.O “Zingaro” (Trapani) nell’ambito del Progetto LIFE09 NAT/IT/000099. 10.13140/RG.2.2.23973.29920.
[22] ISPRA. Parere riguardo la richiesta di prolungamento della Caccia collettiva al Cinghiale nel mese di gennaio – calendario venatorio 2020/2021 Regione Abruzzo. Documento Prot.56445 del 1/12/2020.
[23] Croft S, Franzetti B, Gill R, Massei G (2020) Too many wild boar? Modelling fertility control and culling to reduce wild boar numbers in isolated populations. PLoS ONE 15(9): e0238429.
[24] In base all’articolo 3 della Legge regionale 9 febbraio 2016, n.10 «Legge obiettivo per la gestione degli ungulati in Toscana. Modifiche alla l.r. 3/1994», per “area vocata” si intendono porzioni di territorio agro-silo-pastorale destinate alla gestione conservativa di una o più specie di ungulati, residue rispetto alle aree non vocate
[25] ISPRA. Limitazioni all’attività venatoria a causa della siccità e degli incendi che hanno colpito il Paese. Nota informativa
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