Ci risiamo. Ancora una volta si prova a scardinare l’argine agli OGM che nel 2003 fu posto dall’allora Ministro delle politiche agricole Gianni Alemanno con il decreto legislativo 8 luglio 2003, n. 224, in nome del principio di precauzione e di una politica basata sulla sicurezza alimentare, sui diritti dei contadini e sulle produzioni di qualità.
La proposta dei 5 Stelle
Incredibilmente, però, l’ultimo tentativo viene addirittura dal M5S con la proposta n.3310 (Introduzione del titolo II-bis del decreto legislativo 8 luglio 2003, n. 224, concernente l’emissione deliberata nell’ambiente di organismi prodotti con tecniche di intragenesi o cisgenesi (editing genomico) a fini sperimentali e scientifici). Iniziativa a firma dei deputati Filippo Gallinella, Chiara Gagnarli, Giuseppe L’Abbate, Luciano Cadeddu, Luciano Cillis.
Il cavallo di Troia è l’editing genomico, in italiano denominato «cisgenesi». E’ un intervento di precisione che consentirebbe la correzione mirata di una sequenza di DNA promettendo di introdurre in una varietà coltivata una qualsiasi mutazione favorevole che sia stata individuata in individui selvatici o in specie affini. Il tutto, garantiscono, senza introdurre nuovi geni e soprattutto evitando le «tradizionali» pratiche di incrocio e di reincrocio.
Tecnologie di “seconda generazione” ma pur sempre OGM
Queste tecnologie di “seconda generazione” vengono propagandate come non OGM solo perché ingegnerizzano organismi della stessa specie, invece di incrociare specie diverse. Ma in realtà così non è. Tant’è che la Corte di giustizia dell’Unione europea, con la sentenza del 25 luglio 2018, causa C-528/16, ha equiparato le piante ottenute mediante le tecniche di editing genomico alle piante geneticamente modificate, così come definite dalla direttiva 2001/18/CE. Ribadendo “che la nozione di «varietà geneticamente modificata» debba essere intesa nel senso che essa fa riferimento alla nozione di «OGM» contenuta nella direttiva sugli OGM, cosicché le varietà ottenute mediante mutagenesi che rientrano in tale direttiva devono soddisfare la condizione suindicata”.
Qui non ci addentriamo (ma ci torneremo) sui possibili effetti collaterali di queste biotecnologie (mutazioni fuori target, cancellazioni, riarrangiamenti e inserzioni non desiderate di DNA). Quello che, come Gruppi Ricerca Ecologica, non comprendiamo è la ragione di questa proposta assolutamente contraria all’interesse nazionale.
Un sistema agroalimentare basato sulla qualità
In primis la maggioranza dei produttori non è per nulla interessata a “contaminare” un sistema agroalimentare basato sulla qualità. Sono i numeri a parlare. Come affermato dalla Fondazione Qualivita nel proprio Atlante 2020, il valore delle produzioni italiane di qualità è cresciuto del +70% in dieci anni ed oggi è superiore a 15 miliardi di euro alla produzione). Il suo export, invece, grazie al +145% in un decennio con 8,8 miliardi di euro, rappresenta oggi il 21% del totale delle esportazioni agroalimentari italiane.
Un sistema patrimonializzato sin dal 1989 dall’UNESCO e dal 1992 l’Unione Europea che rappresenta un fattore culturale diffuso e profondo: non ha riguardato solo imprese e Consorzi, ma ha coinvolto altri attori pubblici e privati e la società in senso ampio. Modellando anche sul piano culturale l’identità del Paese e favorendo la coscienza del Made in Italy nel mondo.
La polverizzazione delle aziende italiane
Aprire agli OGM, in un sistema di qualità diffuso sull’intero territorio nazionale, avrebbe effetti dannosi enormi soprattutto per gli agricoltori su piccola scala. In termini di SAU, infatti, secondo l’ISTAT la dimensione media delle 413 mila aziende italiane è di 8,4 ettari. Con una forte polverizzazione al Sud: 7,4 ettari in Sicilia, 5,5 in Puglia, 4,2 in Campania. Inoltre la prevalenza di micro imprese è confermata dalle oltre 407 mila imprese con meno di 10 addetti che rappresentano il 98,6% del totale ed occupano l’84% degli addetti.
I consumatori vogliono trasparenza sugli OGM
A ciò si aggiunga la contrarietà dei consumatori europei. Secondo un recente rapporto Ipsos, la maggioranza di questi vuole addirittura l’etichettatura obbligatoria sui prodotti alimentari contenenti colture geneticamente modificate. Atteggiamento in linea con l’orientamento dell’UE (vedi la Strategia per la Biodiversità 2030 e la Strategia Farm to Fork) verso la tutela assoluta della biodiversità dell’ambiente naturale e la necessità di incentivare l’agricoltura biologica.
Vale la pena esporre tutto ciò a un inquinamento genetico irreversibile, con le conseguenze ecologiche ed economiche che ne deriverebbero?
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