A leggere il PNRR viene da pensare che la sparizione del termine Ambiente nell’intestazione del vecchio omonimo Ministero non sia affatto casuale.
Il rischio idrogeologico ignorato
Analizziamo, infatti, il punto 2.2, Rivoluzione verde e transizione ecologica. Balza agli occhi l’assegnazione di soli 2,49 mld per “misure per la gestione del rischio di alluvione e per la riduzione del rischio idrogeologico”.
Tale risorsa assegnata appare notevolmente esigua se raffrontata alle esigenze dell’Italia. La particolarissima orografia del nostro Paese pone sotto costante rischio idrogeologico il suo territorio e i disastri ad esso collegati sono continui e catastrofici.
Riparare i danni idrogeologici ci costa quattro volte di più rispetto a prevenire il rischio: dal 1998 al 2018 il nostro Paese ha speso circa 20 miliardi di euro per rimediare agli effetti del dissesto a fronte di 5,6 investiti in progettazione e realizzazione di opere di prevenzione (dati ISPRA).
La tutela del territorio e i cambiamenti climatici
Tale fenomeno è ancora più grave nelle città. Perchè è qui che vive vive la maggior parte della popolazione e dunque sono le aree più a rischio. Piogge torrenziali, bombe d’acqua, trombe d’aria assumono proporzioni crescenti assieme alla rilevanza dei danni.
Il danno più grave è quello costituito, ovviamente, dalle vite umane: dal 2000 al 2018, hanno perso la vita 438 persone (fonte CNR).
Il precedente Ministro dell’Ambiente Sergio Costa aveva elaborato un piano anti dissesto idrogeologico da 7,7 miliardi. Importo minimo, perché nel 2013 lo stesso Ministero stimò in 40 miliardi di euro il fabbisogno per rimettere in ragionevole sicurezza l’Italia. Cifre lontanissime da quella prevista, tenendo anche conto che la situazione da allora non è certamente migliorata.
Il Piano pone come obiettivo, nell’ambito della tutela del territorio, la sicurezza “intesa come salvaguardia delle aree verdi e della biodiversità”. Auspica “un sistema avanzato e integrato di monitoraggio e previsione, facendo leva sulle soluzioni più avanzate di sensoristica, dati (inclusi quelli satellitari) e di elaborazione analitica per identificare tempestivamente i possibili rischi”… per “operare sinergicamente sia sul tema della pianificazione e prevenzione che sul versante della gestione delle emergenze.”
Questa impostazione rivela un rapporto astratto con l’enorme mole di boschi montani. Boschi sempre più a rischio anche per la loro cattiva gestione, ma anche per interventi effettuati “senza sporcarsi le scarpe”. Ovvero senza una efficace prevenzione sul territorio che presuppone una vigile presenza.
E’ altresì necessario evitare di ripetere o alimentare la precedente esperienza di “Italia Sicura”: tale struttua fu istituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri ma ha prodotto molti convegni e insoddisfacenti risultati.
Nessuna prevenzione!
Con la soppressione del Corpo Forestale dello Stato, la prevenzione del rischio idrogeologico ha fatto un enorme passo indietro. La presenza di un corpo di polizia tecnico e specialistico durante tutte le fasi dei tagli boschivi è garantita ora solo nelle regioni a Statuto speciale, ove sussistono i Corpi Forestali Regionali. Così come la prevenzione di ogni altra manomissione delle aree forestali, vitale per l’assetto idrogeologico dei bacini montani. Nelle Regioni a Statuto ordinario, viceversa, dal 1 gennaio 2017 non vi è più alcuna attività. Il Corpo Forestale dello Stato è stato in parte assorbito dai Carabinieri, tuttavia questi svolgono precipuamente funzioni repressive dei reati.
Il vulnus più grave è stato subito percepito nell’estate 2017 dove si è toccato il picco più alto, in assoluto, degli incendi boschivi.
Lo stretto collegamento tra incendi boschivi e dissesto idrogeologico e la necessità di un complessivo attento monitoraggio grazie al quale si può addivenire alla prevenzione dei reati ambientali che era la principale missione del CFS quale Polizia di prossimità, riporta ad un principio importantissimo calpestato da questo scellerato provvedimento: per la tutela dell’Ambiente è fondamentale la prevenzione!
La repressione è utile e giusta. Ma quando il danno ambientale è stato prodotto, il fenomeno è pressochè irreversibile. E questo vale per il bosco bruciato, come per la falda inquinata o per un taglio mal fatto in una foresta.
A ciò bisogna aggiungere la mancanza di manutenzione ai boschi e nei bacini montani. Praticamente il venir meno di un organismo di polizia amministrativa che faccia rispettare le “Prescrizioni di Massima di Polizia Forestale”.
La tutela ambientale è un diritto Costituzionalmente garantito
Per comprendere le attuali difficoltà, in cui a fronte del disastro ambientale paventato la risposta non può e non deve essere solo tecnologica, è necessario ricordare le grandi tappe del percorso compiuto per la protezione dell’Ambiente in Italia.
- la Legge Serpieri 3267/1923 ed i suoi Regolamenti Attuativi. Un pilastro fondamentale per la tutela idrogeologica grazie al vincolo dell’uso dei terreni boscati e non in aree a rischio;
- la Legge 1497/1939 (Protezione delle bellezze naturali) e la più recente Legge 431/1985 (Tutela dei beni paesaggistici e ambientali). In particolare per la salvaguardia dei boschi in quanto tali e non solo come funzione della sicurezza idrogeologica.
Queste leggi poggiano sul principio della tutela ambientale, pilastro riconosciuto dall’Articolo 9 della Costituzione della Repubblica Italiana.
Tuttavia, da notizie giornalistiche (come l’articolo a firma T. M. sul Fatto Quotidiano del 10/5/21), alcune tendenze tecnocratiche emerse proprio nel PNRR potrebbero minacciare tale pilastro. La stampa infatti evidenzia che le risorse per la gestione del rischio di alluvione e idrogeologico siano un decimo di quanto assegnato al cemento delle nuove infrastrutture e meno della metà di quanto assegnato alla valorizzazione del territorio dei comuni (altro cemento).
Via la V.I.A.?
Preoccupante è poi l’approccio neoliberista del piano rispetto ai vincoli ambientali : “è necessaria una profonda semplificazione delle norme dei procedimenti in materia ambientale e, in particolare delle disposizioni concernenti la valutazione di impatto ambientale ( VIA ). Le norme vigenti prevedono procedure di durata troppo lunghe e ostacolano la realizzazione di infrastrutture e di altri interventi sul territorio”.
E’ condivisibile la preoccupazione giornalistica: “La Valutazione di impatto ambientale è sentita come un intralcio allo sviluppo, non come una garanzia per l’ambiente. (…) Il Piano invoca a più riprese l’allargamento del silenzio assenso, che costringa le soprintendenze, svuotate di personale, a dire si ad ogni scempio paesaggistico, e anzi si vocifera di istituire una specie di Soprintendenza nazionale unica posta direttamente sotto il controllo della politica“.
Nel Piano, infatti, “si prevede di sottoporre le opere previste dal Pnrr ad una speciale VIA statale che assicuri una velocizzazione dei tempi di conclusione del procedimento, demandando ad una apposita commissione lo svolgimento delle valutazioni in questione”: sebbene la VIA sia stata talvolta trasformata in un ostacolo burocratico, sarebbe l’abrogazione de facto dell’articolo 9 della Costituzione .
Come poi tacere sulla scarsa attenzione alla tutela dei fondali marini: un valore strategico per l’Italia, che però farà molto meno di paesi con molti meno chilometri di costa rispetto ai nostri 8.300.
Il nodo delle infrastrutture idriche e delle reti irrigue
Con riferimento agli interventi nel settore delle infrastrutture idriche e delle reti irrigue, oltre ai condivisibili principi generali enunciati, resta da chiarire come viene effettuato il monitoraggio. Ciò in ragione delle scelte operate nel recente passato che non sono sempre state coerenti con gli stessi principi.
In particolare occorrerebbe evitare che vengano acriticamente prese in considerazione richieste di finanziamento da parte di enti gestori della risorsa idrica di interventi su adduttori o su reti, che si rendono necessari a causa della mancata manutenzione ordinaria da parte degli stessi (cattivi) gestori.
Paradossalemente, gli enti inadempienti per non aver correttamente gestito il patrimonio infrastrutturale PUBBLICO (in carico al demanio statale o regionale) svolgendo una ordinaria e costante manutenzione delle opere loro affidate in concessione, anzichè essere sanzionati vengono “premiati” con nuovi finanziamenti!
Un classico esempio è la mancata protezione catodica di tubazioni metalliche (ma non solo). Ciò porta a ridurre significativamente la vita utile dell’opera con pedissequo rifinanziamento della stessa. Oltre l’evidente ed inammissibile danno arrecato all’ambiente.
Abbiamo, infine, seri dubbi sull’aggiornamento e l’affidabilità del sistema Webgis SIGRIAN posto a base della nuova programmazione irrigua e sui sistemi per l’effettiva misurazione dei volumi erogati.
In conclusione, ciò che manca è una coraggiosa e puntuale campagna di manutenzione delle opere realizzate (e non solo nell’Italia medionale). Tale obiettivo non è stato proposto nè per effettuare una rigorosa ricognizione nè per porre in essere interventi più “fastidiosi” della sostituzione con risorse statali o comunitarie !
Di fronte a questo scenario, non è possibile esimersi dall’esprimere un giudizio estremamente negativo.
dott. Vincenzo Stabile
Ing. Roberto Iodice
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